Doccia scozzese per Nick Carter……………………………………………………………………….. 3
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Doccia scozzese per Nick Carter
1
Sabato, 6 novembre 1965,
ore cinque del mattino.
Il missile si staccò dalla rampa in un punto qualsiasi della Scozia nord-occidentale, in una di quelle numerose isolette perennemente avvolte nella nebbia. Scattò in su come un sigaro gigantesco dalla coda di fuoco, un sigaro che non era soltanto carico di energia nucleare. L’esperimento aveva soprattutto lo scopo di seminare il terrore.
La scura roccia vulcanica dell’isola rabbrividì e si disgregò nei pressi della rampa, ma la maggior parte del frastuono venne assorbito e coperto dalla tempesta che soffiava da nord-ovest. Gli uomini che avevano lanciato il missile avevano contato appunto su quella tempesta che li avrebbe aiutati a lavorare tranquilli.
Il razzo compì la sua lunga parabola nel cielo nero, mentre il giroscopio entrava in azione.
Nel bunker uno degli uomini in camice bianco osservò:
— È facile da lanciare…
Un altro guardò l’orologio da polso e disse:
— Be’, tra quattro minuti lo sapremo.
Un terzo uomo, che parlava con un accento nasale tipicamente americano, fece notare agli altri:
— Un boato simile lo devono aver sentito in tutto il mondo!
Frattanto, il missile aveva raggiunto la velocità massima. Arrivato all’apogeo, cominciò a piegarsi un poco verso il basso. Funzionava in modo perfetto, ed ora aveva il naso puntato verso l’obiettivo, che era il Polo Nord. Sembrava un cane da caccia bene addestrato che rincorresse un uccello…
Nell’attico, i rumori del traffico di New York giungevano attutiti dall’altezza di quaranta piani. Erano come una sinfonia soffocata e confusa entro la quale era difficile distinguere i suoni dei singoli strumenti. Lassù Nick Carter stava dormendo, ma il suo sonno era turbato da una sorta di incubo che non gli era nuovo. Si agitava irrequieto, contraendo di continuo la possente muscolatura, e sulla fronte corrugata c’era qualche goccia di sudore. Una lama di luce al neon che penetrava dall’esterno gli illuminava il volto dai tratti classici e duri, un volto da dio greco. A parte gli occhi, che in certe occasioni potevano diventare dolci o maliziosi, la faccia di Nicholas Huntington Carter era fredda e impenetrabile, con qualche sfumatura di crudeltà. I lineamenti erano quelli di un Apollo, ma l’abitudine al pericolo ne aveva contaminato la purezza, facendoli assomigliare piuttosto a quelli tormentati di Apollione, angelo decaduto senza speranza di riscatto. E quella benigna lama di luce non metteva in evidenza lo sguardo di Nick, che a volte diventava più tagliente di una lama di rasoio.
Il missile si tuffava, adesso, e alla sua velocità folle, si era aggiunta anche la forza di gravità. Il gran deserto bianco scintillava là sotto. L’occhio di ghiaccio del Polo stava fissando quel terribile intruso che stava per accecarlo. La distesa artica stava aspettando che il fuoco fatto dall’uomo la liberasse, trasformandola in un’enorme massa di vapore acqueo.
Alla fine l’incubo ebbe la meglio, e riuscì a svegliare Nick Carter con uno scossone. “Sterminio” se ne stette un po’ senza respiro, tremante e sudato; poi si asciugò la fronte con il dorso della mano e scivolò fuori dal letto, infilando i piedi nelle pantofole. Indossò anche la vestaglia e guardò la ragazza che dormiva supina, coperta solo fino alla, vita. Si chiamava Melba O’Shaughnessy, era irlandese e veniva da Dublino. La sera prima aveva debuttato al Metropolitan nella Bohème, interpretando il ruolo di Musetta. Oggi tutta New York si sarebbe gettata ai suoi piedi. Le avevano chiesto una ventina di bis. E Nick, che l’aveva conosciuta più tardi al trattenimento dato in suo onore, era riuscito in breve a rapirla e a portarsela lassù, nel suo attico del quarantesimo piano…
Il missile si tuffò profondamente nel ghiaccio ed esplose. Cinquanta megatoni di furia selvaggia si scaricarono sulla sommità di un mondo che ancora non si era reso conto di essere stato colpito. Per un raggio di una settantina di chilometri all’intorno, il manto gelido si sciolse e ribollì.
Su un’isola galleggiante di ghiaccio, a circa 150 chilometri di distanza, a sud, un gruppo di scienziati americani e tedesco-occidentali fissarono inorriditi quella palla di fuoco che passava nel cielo. Uno dei tedeschi si spazzò via i ghiaccioli dalla barba con dita tremanti e borbottò:
— Mein Gott! Quel porco! Mein Gott, l’ha lanciato davvero!
Uno scienziato della Marina americana si mise a riflettere al la svelta. Osservando il “sigaro” infuocato che si allontanava verso la meta, disse:
— Non dobbiamo arrivare troppo presto alle conclusioni. Quell’affare sembra diretto verso il Polo. Come mai? Perché sprecherebbe un missile in questa maniera?
A meno che non sia una sorta di avvertimento… E quei tipi non avvertono mai. No…
C’è del marcio in Danimarca… Ve lo dico io!
E corse verso la tenda, dove c’era la rice-trasmittente.
Nick Carter, alias Numero Tre, a cui l’AXE aveva dato licenza d’uccidere tanto da fargli meritare il soprannome di “Sterminio”, rimase per un po’ immobile accanto al letto e ammirò Melba O’Shaughnessy. Stava per coprirle il petto nudo, ma poi preferì guardarlo ancora un po’. Ne valeva la pena. Melba aveva due seni superbi, proprio adatti a una cantante lirica. Nick si vantava di essere un esperto in materia. E quei due promontori avevano qualcosa di eccezionale. L’epidermide era bianchissima, morbida e vellutata, d’una perfezione marmorea, appena venata d’azzurro. Morbida e soda. Veramente squisita! Quei seni parevano scolpiti nel marmo di Carrara.
Nick sorrise ripensando a ciò che era avvenuto. Melba si era mostrata sensibilissima e gli aveva dato una grande soddisfazione. Aveva mugolato e singhiozzato di piacere. Sì, era stato meraviglioso. La prima volta, in genere, è sempre così. E tutto era accaduto così in fretta… Qualche coppa di champagne al ricevimento, poi Nick le aveva suggerito di piantare tutto e di scappare via con lui.
Dapprima Melba aveva riso, mostrandogli i magnifici denti candidi, e aveva osservato:
— Immagino che avrete una collezione di quadri da mostrarmi, vero? Andate in fretta voi, signor Carter!
Nick non si era lasciato smontare e aveva precisato:
— Ho un attico dove abitualmente vivo solo. Ma per divertircisi, è meglio essere in due. Vi sembro troppo svelto? Ma mia cara, viviamo in un mondo di velocità, ormai… Il domani potrebbe anche non venire.
La ragazza aveva riso ancora, e Nick aveva colto una scintilla maliziosa negli occhi violetti.
— Carpe diem?
— Qualcosa di simile, ma vi prego, risparmiatemi il latino! A scuola mi bocciavano sempre in quella maledetta lingua. Ma se significa quel che penso, d’accordo. Diciamo alla buona che bisogna cogliere le occasioni quando si presentano per non avere rimpianti dopo.
Melba lo aveva studiato bene con quei suoi occhioni violetti, e Nick aveva capito di aver fatto centro. Su quelle labbra rosse e sorridenti aleggiava il desiderio. Gli aveva domandato:
— Partite sempre all’attacco in questo modo… Nick?
— Credo di sì. Vogliamo andare?
Poco dopo, mentre filava fuori con lei, Nick s’era detto che nella sua professione era indispensabile aggrapparsi all’attimo, più che all’ora. Era quasi un mese ormai che il telefono azzurro del suo attico non suonava. Lui sapeva benissimo che la vacanza non sarebbe durata molto. Ben presto la voce asciutta di Della Stokes – la segretaria privata di Hawk – gli avrebbe detto di mettersi in moto. Poi anche Hawk sarebbe venuto all’apparecchio e gli avrebbe ordinato di partire per chissà dove.
Purché il telefono non trillasse proprio stanotte…
In tassì aveva baciato Melba O’Shaughnessy, e lei aveva risposto con abbandono, poi aveva sussurrato:
— Mi sembra d’essere una donnaccia, sai? Ti assicuro che di solito non lo sono.
Mi rendo conto che non dovrei mostrarmi così facile. Ma con te… Hai qualcosa di speciale che fa naufragare tutte le mie inibizioni…
Adesso Melba dormiva, appagata. Quando Nick si decise a coprirle il seno, vide un sorriso felice su quelle belle labbra golose.
Il tempo era pessimo sulla Gran Bretagna e sul continente europeo. Pioggia mista a nevischio ghiacciato, più un vento terribile di nord-ovest che schiaffeggiava tutte le capitali. In ogni città, alle otto in punto, era giunto un dispaccio indirizzato al Primo Ministro, Presidente o Cancelliere, e sull’angolo di ogni busta si leggeva la scritta:
«TOP SECRET – Urgentissimo. Si riferisce all’esplosione atomica polare.»
L’arrivo di quelle lettere, come il lancio del missile, era stato calcolato al secondo.
Era la vecchia tecnica di Hitler, quella di compiere e di rivelare una mossa ardita a fine settimana, mentre il meccanismo governativo si muove a rilento e il personale importante è disseminato qua e là, e difficile da reperirsi. Quando i grossi funzionari sono rientrati dalla caccia o dalla pesca e sono riusciti a riunirsi per deliberare, è ormai troppo tardi. Si trovano di fronte al fatto compiuto.
Hitler usava questa tecnica con grande successo. Adesso un altro cervello astuto la stava sfruttando. Un cervello che disprezzava Hitler solo perché gli era andata male, ma che condivideva la sua folle megalomania. Il nuovo pazzo si firmava con un nome che ricordava molti secoli di storia celtica. In calce ad ogni lettera c’era, scritta in rosso, la parola “PENDRAGON”.
Frattanto, mentre i vari presidenti europei leggevano la propria lettera, i Ministeri dell’Est e dell’Ovest vivevano minuti di attività febbrile. Telefoni e telex erano addirittura incandescenti. Il Presidente degli Stati Uniti assicurava formalmente a quello dell’URSS che non era stato il suo paese a lanciare il missile al Polo. E il suo interlocutore assicurava altrettanto formalmente che neppure il suo paese l’aveva lanciato. Chi, allora?
Gli inglesi? I francesi? Gli italiani? I tedeschi? Impossibile. I francesi erano appena agl’inizi della corsa atomica e non avrebbero potuto permettersi una bravata simile.
L’Italia e la Germania occidentale non ce l’avevano neppure, la Bomba.
L’Inghilterra? Per carità, addirittura impensabile! Ma da dove era partito quel missile, dunque?
Il presidente americano e quello russo si parlavano con accenti di disperata urgenza, ognuno cercando di convincere l’altro, ognuno consapevole che il mondo se ne stava pericolosamente sull’orlo di una guerra nucleare. Ognuno dei due assicurava l’altro del proprio desiderio di pace. Infine decisero di restare in attesa di ulteriori sviluppi.
Fu in quel momento che arrivarono le famose lettere. Ma solo in Europa. Nessuno aveva avvertito la Russia né l’America. Appena letto il messaggio, il Premier della Gran Bretagna telefonò al presidente degli Stati Uniti. Dopo un colloquio rapido, frenetico, durante il quale la linea con Mosca rimase aperta, giunsero anche le chiamate da Parigi, da Roma e da Bonn.
Dieci minuti dopo, le cose erano se non altro più chiare. Non che i capi dei sei paesi più importanti del mondo si sentissero più tranquilli, ma se non altro erano un po’ più sollevati per il tempo che ancora li separava dall’ora zero.
Le lettere erano molto esplicite; concedevano una settimana per obbedire alle richieste esposte nel messaggio. Pendragon aveva parlato!
Certe notizie trapelano fatalmente, e la stampa non tarda ad impossessarsene.
Anche stavolta andò così. I giornali di tutto il mondo commentarono la misteriosa esplosione al Polo Nord. Non sapevano altro e non potevano pubblicare altro, così milioni di lettori rimasero con il fiato sospeso. Per comune accordo la cortina di ferro della censura si abbatté su tutti i quotidiani, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in tutti gli altri paesi. Dopo quella breve notizia allarmistica, più nulla. Silenzio assoluto.
Pendragon, annidato in mezzo alla diabolica ragnatela da lui stesso tessuta, esaminò la briscola che aveva in mano e sorrise.
Nick Carter si versò un whisky allungato e se lo portò in terrazza. Melba dormiva ancora, sempre con quel sorrisetto sulle labbra. Nick accese una delle sue lunghe sigarette speciali (un misto di tabacco di Latakia, Perique e Virginia), che avevano una NC impressa in oro sul bocchino. Quella era una delle sue pochissime ostentazioni, e se le fumava con vero piacere, ma solo quand’era a casa sua. Non le portava mai con sé quando andava in missione, altrimenti avrebbe tradito subito la sua identità. Ora aspirò golosamente il tabacco profumato, si richiuse la porta-finestra alle spalle e tirò su il bavero della vestaglia con un brivido. Cadeva una pioggerella sottile e gelida che anneriva il mosaico del terrazzo, coprendolo di uno strato di untume. Mancava circa un’ora all’alba. Indifferente alla pioggia, Nick si affacciò al parapetto e guardò il canyon nero della Quarantaseiesima Strada. Alcune insegne al neon si riflettevano nel suolo bagnato con un’iridescenza multicolore. Il traffico era scarsissimo a quell’ora. Pareva che un serpentello metallico si fosse spezzato in tanti segmenti, pur continuando la sua corsa. Predominavano gli autocarri e i tassì notturni.
Nick si disse che a New York il movimento non cessava mai del tutto, né il rumore.
Alla sua destra alcune luci si accesero nel Palazzo delle Nazioni Unite. Cominciavano presto a far pulizia…
Una ventata fredda gli aprì la vestaglia, e la pioggia gli bagnò le gambe. Nick bevve un altro sorso di scotch, aspirò un’altra boccata dalla lunga sigaretta, e si disse che ormai non sarebbe più riuscito a prender sonno. Era troppo sveglio, quindi tanto valeva approfittarne. Sapeva benissimo quel che avrebbe fatto. Carpe diem!
Tornò in camera, s’infilò nel letto al fianco di Melba e le baciò le labbra rosse.
Lei ci mise un po’ a svegliarsi, a capire chi era e dove si trovava. Per un attimo parve quasi impaurita e si scostò.
Nick la strinse e le baciò un orecchio.
— Non aver paura, tesoro… È solo Nick. Non ti ricordi di me?
Ancora per un attimo lei cercò di divincolarsi, si dibatté fra le sue braccia come un uccellino nella pania. Ma infine le tornò la memoria. Allora gli si accoccolò addosso, e lui continuò a baciarla e a picchiettarle dolcemente la spina dorsale con le dita. Lei rabbrividì di piacere ed esclamò:
— Oh, Nick, che splendido risveglio!
Si baciarono ancora, a lungo. Infine Melba si staccò un momento per respirare, ma non gli tolse le braccia dal collo.
— Caro, stavo sognando di te…
— Hai fatto male. Sono qui…
— È stata una cosa tanto meravigliosa, amore… Non potrò mai dimenticarla, mai!
Nick le diede un altro bacio, poi le disse:
— È un po’ presto per parlare di dimenticare. Abbiamo appena cominciato…
Lei lo guardò fisso.
— Davvero? Vorrei tanto crederci, Nicky caro, ma non ci riesco. Sei un tipo così strano… In un certo senso sei troppo perfetto per essere vero, e ho la strana sensazione che dopo stanotte non ti vedrò più.
— Ecco la preveggenza degli irlandesi. E ne hai pure il difetto principale, sai? Parli troppo!
Ma mentre cominciava i preliminari di un nuovo amplesso, Nick riconosceva che la donna aveva ragione. E fece all’amore con una sorta di fretta rabbiosa, conscio che quegli attimi di piacere erano rubati alla professione, e che da un momento all’altro…
Carpe diem? Magari! Qui si trattava di sfruttare il secondo!
Adesso il letto si era trasformato in un campo di battaglia, e Melba lottava con tenera furia. Diede e ricevette in egual misura, punteggiando il suo amore di gemiti convulsi di piacere.
Quel maledetto telefono azzurro! Certo avrebbe suonato. Figurarsi se non avrebbe suonato. Hawk era speciale per rompergli le uova nel paniere! Non riusciva a spazzar via dal cervello quei due occhi gelidi, secchi e smorti come Dry Martini, quel sigaro puzzolente. Sentiva nell’aria che la chiamata stava per venire. Oh, Hawk, vecchio mio, aspetta un momento, un momentino ancora…
Melba O’Shaughnessy, adesso in piena frenesia amorosa, smaniava e scalciava, mugolando esasperata. L’estasi arrivò per entrambi nello stesso istante, e infine Melba giacque al fianco di Nick come una bambola spezzata, ansante, svuotata e leggera.
In un’altra stanza trillò il telefono.
Nessuno dei due si mosse. Lei ora giaceva a faccia in giù sul guanciale, e Nick fissava il soffitto, incapace di reagire. Che tempismo, pensò con divertita stizza. Un tempismo davvero eccellente, Hawk! Vorrei potervi dire quanto siete stato opportuno nella scelta del momento, se potessi permettermi tanta confidenza!
Nell’altra stanza l’apparecchio continuò a trillare, solitario, metallico e deciso.
Melba si mosse, aprì un occhio e fissò il telefono nero sul tavolino da notte.
— Non è questo che suona — fu il suo inutile commento.
Nick rimase immobile un altro poco.
— Lo so, lo so. È nell’altra stanza. Tra un attimo andrò a rispondere — borbottò.
Melba si appoggiò su un gomito e lo guardò.
— È un’ora maledettamente inopportuna per chiamare un cristiano! Non sarà per caso un’altra donna, tesoro?
Nick rotolò giù dal letto con un grugnito.
— Non c’è pericolo. Magari lo fosse! E tanto vale che risponda, perché quello continuerà a chiamare per delle ore! Sai, gli irlandesi non sono i soli che hanno una seconda vista. Io sono il settimo figlio di un settimo figlio, e sono nato con un terribile senso profetico. So chi mi chiama.
Melba si accucciò come un gattino e si tirò la coperta addosso.
— Sei uno strano tipo, Nicholas Carter. Va’ a rispondere, poi torna qui da me.
Nick andò nell’altra stanza e staccò il ricevitore azzurro.
— Sì?
La secca voce zitellesca di Della Stokes gli disse:
— Chiamata da Washington, Numero Tre. Codici GDG e FDM. Vi passo la comunicazione.
Un brivido scosse Nick Carter, suo malgrado. Perbacco, avevano collegato i codici peggiori! GDG voleva dire Giorno del Giudizio, e FDM significava Fine del Mondo.
Quello era il più grosso segnale di pericolo che un agente dell’AXE potesse mai ricevere, e aveva la precedenza su qualunque altro. Non gli risultava che fosse mai stato usato prima. Mio Dio, GDG e FDM insieme! Bisognava proprio che il mondo fosse sul punto di andare a pezzi, perché Hawk usasse quel segnale!
— Sì? Pronto? — domandò Nick quando sentì la voce del capo.